sabato 31 gennaio 2015

Michele Petilli da minatore a imprenditore... storie di una Potenza che fu

Da una galleria spuntava una teleferica fitta di carrelli stracolmi di manganese. La guardavo da lontano ormai. Lontano, lontanissimo il posto dove ero nato. Venni qui per vivere quattro fottutissimi anni sottoterra scappando da una terra che non mi dava davvero niente.  Quattro lunghissimi anni, tutti i giorni,  sette giorni a settimana, salivo fino a metà di un'enorme montagna e mi infilavo in un buco che mi portava al centro della terra. Quel buco era freddo a gennaio come ad agosto ed io, non ho fatto altro che frantumare massi per ore, per giorni, per mesi, per anni. Una crisi che veniva da lontano poi, fece finire tutto, la crisi che mi fece uscire dal buco. Una crisi che divenne opportunità! Sono Michele Petilli classe 1908 ed ho appena vent'anni. Io riparto da Minervino Murge e sono abbracciato a Gerardo Brancati un Lucano di Potenza con cui ho diviso tutto qui, dal cibo ad una fidanzata. Un viaggio di ritorno denso di pensieri, il viaggio che cambiò la mia vita. La crisi del '29! Quella che accese la lampadina del minatore. Avevo una meta: Potenza! La città che veniva in sogno al mio amico Gerardo e che puntualmente me la raccontava. Aveva scatenato in me una curiosità incredibile! Mi parlava di fiere e mercati, di funzionari e impiegati, di processioni e sfilate. Potenza divenne la mia città dove io, Michele Petilli, iniziai con calze e mutande e divenni sarto di camice eleganti. Dove io Michele Petilli da minatore divenni imprenditore. Questo il mio omaggio al mio amico Alessandro Petilli erede di oltre ottant'anni di storia e storie ed io questa storia l'ho immaginata così!
 

venerdì 30 gennaio 2015

Il vento gelido del gennaio 1799

Un vento gelido tagliava vicoli e comignoli impedendo al fumo dei camini di liberarsi nell'aria. Lo rimandava dentro l'unica stanza dove erano sistemati una dozzina di esseri viventi. Uomini, donne, bambini, cani, gatti, asini e galline. Quasi un'Arca di Noè. Gennaio un mese gelido e quello del 1799 ancora di più. Gli uomini, quelli semplici, avevano poche cose. Le braccia e la buona salute, una moglie, tanti figli e la fede in Dio. Era un pregare sempre, un battersi il petto permanentemente e sottoporsi ad incredibili "trapazzi" di fede. Era un modo per scongiurare carestie e scarsezza di raccolto. Si pregava, pregava, pregava! Si invocava benedizione e protezione per gli esseri viventi, senza distinguere, gli uomini dai serpenti. Quelli erano i tempi in cui, anche la morte di una vecchia gallina, era una fottutissima brutta notizia, quasi un lutto! A una decina di metri da lì, da quell'arca di Noè, scendevi tre gradini ed eri in una becera, fumosa e puzzolente cantina. Un posto perduto per dimenticare, per raccontare e ascoltare e per molti anche per bestemmiare. Un luogo con poche regole ma ideale per assistere e consumare tremende e violente vendette. Erano i tempi di una pancia sempre a metà che poteva contenere litri e litri di infimissimo vino. Quel vino che diventava fumo di allegria in alcuni in altri rancore da vendicare. Fuori da questo mondo un padrone, Daniele Carbone massaro di campo, il suo acerrimo nemico l'arcidiacono Matteo Catalano e tutto quell'immenso mondo di "zimarre" di cui erano zeppi conventi e chiese, poi, una lunga mano, quella del Barone, con esattori e leggi taglione. Non resistevo con quel cappio alla gola. Spirava un vento di cambiamento e libertà ero un lesto di mano e di cervello. Mi chiamavo Carlo Antonio Avigliano figlio di Mastro Gerardo e Maria Antonia Brindisi avevo ventisette anni ed ero un bracciale divenni capo di guardie civiche paladini di libertà. Vincenza Carbone la mia promessa sposa. La storia mi consegnerà come cospiratore, gran sparlatore di Sua Maestà e per questo fui condannato ad espiare le mie pene fra le mura di Ventotene. Dopo Carlo Antonio venne Raffaele, poi ancora Carlo Antonio, a seguire Francesco, Angelo Pasquale, Antonio e infine io. Buongiorno a voi oggi sono partito un po' da lontano.

Dio non ha volto

Dio non ha volto. Najib Benjdia vive da queste parti dal lontano 1980, un pioniere, fra i primi ad arrivare qui dalla sua Casablanca. Negli anni, per via di un nome troppo complicato, lui è diventato Franco ed ora è davvero Franco. Si è barcamenato in centomila lavori, prima ambulante, poi parcheggiatore, ora di nuovo ambulante, con la sua Panda rossa caratterizzata da un enorme portabagagli. Un buon uomo voluto bene da tutti. Un uomo mite. E proprio in un mite pomeriggio di gennaio, mentre ero seduto sulla mia panchina di sole, si siede di fianco e all'improvviso senza conoscermi, mi dice: che bella giornata! Oggi qui c'è lo stesso clima di Casablanca, la mia città. Lì non fa mai freddo. C'è il mare ci vado ogni anno. Ed io gli chiedo sei sposato, hai figli? Lui, si mia moglie l'ho portata qui in Italia nel '90 ed ho avuto tre figli, nati tutti qui. Ora ne ho solamente due. Nel suo difficile italiano mi dice: la mia figlia più grande l'ho persa qualche mese fa, non ricordo nemmeno se due o tre mesi fa. Si chiamava Fatima aveva 22 anni una caduta da cavallo. Un brivido freddo e gelato mi ha attraversato. Non sono riuscito a trattenere la commozione di padre. E Franco per confortarmi mi dice, noi non possiamo niente, siamo nelle mani di Dio, lui decide per noi, questo è quello che mi fa andare avanti. Mia moglie non so se ce la farà da allora l'ho vista solo piangere! Piange sempre. Ma Dio è grande, lui penserà anche a lei. In quel momento pensavo ad un Dio diverso dal mio, con un colore della pelle diversa, senza barba e chioma bianca, pensavo al Dio di Franco. Un Dio però che agisce sulle anime nello stesso identico modo. Un Dio che entra nei cuori con la stessa intensità di quello a cui credo io. Franco dice :"ora Fatima, la mia figlia, è al sole di Casablanca. Per portarla lì mi hanno aiutato tutti qui non c'è stata una famiglia che non mi è stata vicina. Anche il Comune mi ha aiutato per l'ultimo viaggio di Fatima. Noi qui ci sentiamo in una grande famiglia. Un giorno anch'io tornerò in Marocco ho sessantadue anni e fra qualche anno andrò in pensione, la mia pensione servirà ai miei figli che sono nati qui e che qui vogliono vivere". Finalmente sono le 15, apre il bar, io prendo un caffè e Franco un espressino. Mi rimetto in sella e torno a casa. Sono due giorni che penso a Franco e a Fatima che porta il nome di una Madonna. Nel tempo delle guerre di religione da Franco ho avuto una grande lezione: esiste un Dio di tutti e per tutti!

Memoria e Memorie

Non finiva mai di bruciare questo enorme ceppo che avevo messo dalla mattina nel grande camino. Questi sono i giorni della "merla" ed è proprio vero, sono i giorni che, non danno scampo al vento di tramontana, al gelo, alla neve. Puntuale il gelido inverno ed oggi mercoledì 27 gennaio 1982, sono al cospetto di una vita vera, vissuta con grande intensità, passando per due guerre, per un lungo viaggio verso l'America, ritornando qui e di sicuro morendo qui. Quando partii, nel lontano 1920, sputai la terra che calpestavo e quando misi piede sulla quella grande nave, la "Perugia" al molo Beverello di Napoli, credetti davvero di aver smesso di stare coi piedi su zolle che non volevo più vangare. Da allora di fatto, non le vangai mai più! Fu mio fratello Michele, partito qualche anno prima, che mi sistemò! Lui era già diventato Mike! Mike Avigliano nella sanguinosa Chicago degli anni '20. Lo capii appena arrivai. Mi bastò andare con lui in qualche stamberga per intuire in che razza di giro si era ficcato. Capii subito che qui non era Vaglio e divenni presto muto e sordo cosa che fra l'altro mi faceva molto comodo all'occorrenza, far finta di non conoscere quella stranissima lingua dove il pane si chiamava "bred" e il latte "milc". Qui era peggio, molto peggio,  di quanto avevo visto al fronte della Grande Guerra. Lì combattevi un nemico con un'altra divisa e un altro elmo, qui ti dovevi difendere da traditori, ruffiani e puttane. Fra le tante, mi torna ancora in mente quella volta quando quel bandito di Mike, bello, sempre elegante, moro e dagli occhi azzurri, per scampare ad un agguato, si finse morto facendo pubblicare addirittura annunci necrologici ed io credetti davvero che avesse fatto una brutta fine, ma proprio quando il dolore stava facendo spazio alla rassegnazione, me lo ritrovai come un Cristo risorto più vivo che mai. Continuò a nascondersi per mesi fino a quando chi lo braccava fu braccato!  Ad onor del vero però fu grazie a lui che a me gli affari andarono bene anzi di più! Mi aiutò ad avviare una piccola tintoria cedetti, quando tornai, la più grande lavanderia di Chicago. Ma arrivò il giorno che dovetti scappare da quel posto. Tutto all'improvviso cambiò. Francesca, mia moglie,  diede alla luce Antonia una bimba meravigliosa che smise di essere bimba a quattro anni. Noi tornammo qui non ce la potevamo fare, Francesca non ce la poteva fare è così fu! Lasciammo lì Antonia in un ordinato campo verde. Noi non tornammo mai più da lei. Al paese tornammo con un grande dolore ma da ricchi americani. Qui, mi vestivo da americano,  avevo una casa da americano e nonostante però,  pensassi americano e fantasticassi americano, quando mi affacciavo al balcone non vedevo un fottuto americano. Qui non sentii mai più  uno strombazzare di auto come sulla Michigan Avenue, mai più il rumore delle rotaie dei tram e mai nessuno che mi abbia detto più: Good Morning Mr. Avigliano, how are you? Sono Antonio Michele Avigliano classe 1898 e qui sono conosciuto come Iuccio u' merican! Eppure tutto ebbe inizio con quella maledetta Guerra e quel richiamo alle armi appena diciassettenne che mi portò via amore e sogni, ma quella è un'altra storia... Buongiorno 27 gennaio 2015!

Un lavatoio nei ricordi




Vaglio Basilicata, La Fontana Vecchia.

La Fontana Vecchia, luogo di bucato rigorosamente con Sapone Sole e asciugatura su biancospino in luogo di scontate e ovvie lavatrici e asciugatrici.

Andandoci oggi mi sono ricordato di due generazioni di donne di casa che sono passate da lì. 

Erano giornate lunghe quelle. Sia per chi strofinava sapone, torceva, sciacquava, risciacquava, stendeva, piegava e riponeva tutti i panni nella stessa cesta che lì, erano stati portati la mattina il più delle volte all'alba per arrivare primi e sia per i bambini, che necessariamente erano al seguito di queste instancabili mamme e nonne.

Per i bambini,  il tempo si faceva di piombo perché una volta consumato un panino, aver fatto una decina di volte su e giù per la scarpata, tirato sassi agli alberi,  nient'altro ti poteva succedere.

Altre volte però alcune giornate si facevano un po' più interessanti quando all'improvviso iniziava un sostenuto ed acceso battibecco fra contendenti postazioni di privilegio.

Chi doveva sciacquare e terminare il ciclo del lavaggio stava in cima vicino la fonte di acqua limpida chi era all'inizio del processo invece si poteva gestire anche stando sotto.

Ma non sempre tutto filava  così  liscio ed alcune, le postazioni,  le conquistavano con la lite il più delle volte anche violenta e non di rado ci scappava anche un'accapigliatina. Erano proprio quelle le giornate più interessanti!

Era infine, luogo di meraviglioso chiacchiericcio lì si sintetizzava più o meno il vissuto di 7 giorni di oltre 2000 persone e con tali variabili il tempo di un lavaggio era assolutamente insufficiente a raccogliere e raccontare il gossip di un intero paese.

Oggi un silenzio surreale alla Fontana Vecchia solo il rumore dell'acqua ed allora è stato facile concentrarmi per farmi tornare nella mente i rumori, le voci, le ariette e le immagini di un film di quasi cinquant'anni fa.